Capitolo 4

 "Non basterà questo a fermare ciò che è destinato ad accadere.
Altri verranno a finire quello che io e i miei compagni abbiamo iniziato.
Questa società è marcia, e una rivoluzione è l'unica cosa in grado di migliorarla.
A coloro che credono di avere tutto sotto controllo dico, state solo rimandando l'inevitabile."
Auguste Delaroche, ultima intervista prima dell'internazione sulla Stazione Ares

4


L’ammiraglio Constance Forrest era quasi una leggenda nell’aeronautica di Caldesia.
Aveva comandato per anni l’Aurora, ed era stata la prima donna a ricoprire, seppur solo per pochi mesi, il ruolo di comandante in capo delle forze armate caldesiane.
Nessuno sapeva esattamente perché avesse voluto congedarsi, proprio all’apice della sua carriera, ritirandosi totalmente dalla vita politica e militare per chiudersi in una sorta di eremitaggio nella sua sfarzosa residenza di famiglia nelle campagne di Loitres, a quasi duecento miglia dalla capitale.
 Non aveva mai avuto né famiglia né figli. Aveva solo un nipote, Victor, sottufficiale dell’esercito nazionale, ma a quanto si diceva non lo vedeva da anni, perché i rapporti con il fratello erano da sempre assai tesi.
Salvo attendenti e servitori in quella villa non viveva nessuno a parte lei, e questo rendeva ancor più incomprensibile quella sorta di esilio che sembrava essersi autoimposta.
La sua giornata era scandita e ordinata come quella di una religiosa, dall’ora della sveglia a quella dei pasti, fino ai passatempi. In particolare, se il tempo lo permetteva, tutti i giorni, dalle dieci a mezzogiorno, l’ammiraglio era solita prendere il tè all’ombra del gazebo di pietra al centro del suo giardino di rose, assaporando nella solitudine e nella tranquillità la bellezza e gli aromi di quel piccolo angolo di paradiso che aveva curato fin da bambina.
«Mi scusi, signora.» le disse rispettosamente Benjamin, il suo maggiordomo, probabilmente la sola persona in quella casa più vecchia di lei «È arrivato un ospite.»
«Fallo accomodare.» rispose la donna intuendo di chi si trattasse.
Il maggiordomo si congedò brevemente, e quando, dopo poco, Constance sollevò lo sguardo dal romanzo che stava leggendo lo vide ricomparire con al seguito il suo vecchio amico Harlow.
«Mi fa piacere rivederti, amico mio.» disse Constance alzandosi e scambiandosi un bacio sulla guancia con il direttore
«Ti trovo bene, Constance. Il congedo a quanto pare non ti ha impigrita.»
«Nonostante tutto, faccio del mio meglio per tenermi impegnata».
Si accomodarono sotto il gazebo, e Benjamin venne a portare loro dell’altro tè per poi lasciarli nuovamente soli.
«Di solito, quando vieni qui è sintomo di cattive novelle.» scherzò l’ammiraglio
«Che crudeltà. Non posso neanche far visita ad una vecchia amica?».
Constance lo guardò.
«Non sei mai stato bravo a mentire, Gillian. Con quello che sta accadendo in città e Avalon che ha ricominciato a farsi sentire, dubito che tu abbia fatto duecento miglia in macchina nel tuo unico giorno di riposo da un mese a questa parte solo per vedere una vecchia amica.».
Gillian restò prima un momento incredulo, poi accennò un sorriso di complicità; esiliata dal mondo o meno, Constance sapeva ancora come venire a conoscenza anche delle informazioni più riservate.
«Le notizie viaggiano veloci, a quanto vedo.» commentò il direttore tra l’ironia e la frustrazione
«Non sono stata un ufficiale caldesiano per quarant’anni per amore delle apparenze.
Allora, di che vuoi parlarmi?».
Gillian non volle temporeggiare oltre e spiegò ogni cosa.
Non che ci fosse qualcosa da spiegare, del resto. Anche Constance aveva visto con i suoi occhi quanto Avalon potesse arrivare ad essere pericolosa per l’ordine politico e sociale dell’intero pianeta, e non soltanto per i suoi attentati e i suoi proclami apocalittici.
«Sei preoccupato per le possibili reazioni?» domandò la donna senza mezzi termini
«C’eri anche tu dodici anni fa, mi pare. Ricordi quante teste sono saltate prima e dopo che l’organizzazione fosse smantellata?».
L’ammiraglio tacque, intinse delicatamente una zolletta di zucchero nella sua tazza e ne sorseggiò un goccio. Era preoccupata.
«In un certo senso, da quando è nata Avalon non ha fatto altro che convertire in parole e fatti quello che molti in realtà hanno sempre pensato.
E non mi riferisco solo ai cittadini esasperati da tutti questi incidenti».
Gillian si schiarì la gola, un gesto che fu interpretato dall’ammiraglio come un segno di nervosismo.
«Anche se l’attentato al procuratore è stato fatto passare come un incidente, la situazione in città non è molto tranquilla.» disse sconfortato il direttore
«Potete oscurare e occultare tutte le notizie che volete. La gente di questo pianeta in un certo senso ha imparato a rendersi conto quando qualcosa non và per il verso giusto.
Alla favoletta della società pacifica e priva di mali che i nostri antenati si sono portati dietro dalla Terra ormai non crede più nessuno.
In questo, forse, quei fanatici assassini non hanno poi tutti i torti.»
«C’è preoccupazione. Questo lo ammetto. Forse non sarò nel Consiglio di Sicurezza dell’agenzia, ma so capire quando ai piani alti cercano di nascondermi qualcosa».
L’ammiraglio guardò Gillian negli occhi.
«Pensi a del marcio nell’agenzia?»
«Non lo so. Ma certo è che è parecchio strano. Come avranno fatto quelli di Avalon a seminare i germogli della propria rinascita senza che nessuno si accorgesse di nulla?»
«Forse su questo pianeta in pochi pensano ancora che la nostra sia quella società senza macchia che si credeva.» replicò Constance tornando a concentrarsi sul suo tè «Ma certo è che nonostante tutto ci si vuole credere. Anche a costo di far finta di non vedere. Ma c’è un limite alla polvere che si può nascondere sotto al tappeto.»
«E se non fosse così?» obiettò il direttore quasi minaccioso.
Nuovamente si fissarono, enigmatici e in silenzio, come a voler cercare di leggere i pensieri l’uno dell’altro, poi l’ammiraglio aprì una finestra accanto a sé contenente tutti i nominativi e i dossier degli alti ufficiali dell’esercito nazionale. Gil pensò bene di non chiederle come facesse ad averli.
«Anche tralasciando simpatizzanti e anticonformisti di poco conto, sono in molti a cavalcare l’onda dell’insoddisfazione e del nazionalismo, soprattutto nell’esercito. Per la maggior parte si tratta di vecchi ufficiali provenienti dalla nobiltà di Kyrador.
Tutta gente molto potente e influente. È un terreno pericoloso quello su cui vuoi camminare.»
«Sei fuori strada. Non sarò io a prendermi questa patata bollente. Non subito, almeno.»
«E allora perché sei venuto qui?» domandò provocatoria l’ammiraglio
«Ricordo fin troppo bene cosa successe dodici anni fa, mentre davamo la caccia ad Avalon.» rispose Gillian facendosi scuro in volto e sfiorando con un dito il bordo della tazza «Quando si parla di loro quasi sempre si parla anche di incidenti, e quando si parla di incidenti sono i miei ragazzi ad andarci di mezzo. Se dovesse mai succedere qualcosa, voglio sapere a chi dovrò andare a chiedere conto».
L’ammiraglio accennò un’espressione ironica. Anche lontano dal ponte di comando di una nave da guerra e con dieci anni in più sulle spalle, Gillian era ancora l’uomo tutto d’un pezzo che conosceva.
«Latte o limone?».

Carmy aveva sparato poche volte in vita sua, e comunque mai a qualcuno che non fosse un bersaglio olografico o comunque finto, malgrado come tutti gli agenti portasse sempre con sé una pistola d’ordinanza.
Dopo quello che era accaduto nella sua prima scena del crimine, però, qualcosa dentro di lei si era acceso, e da quel giorno si recava quasi quotidianamente, la mattina presto o la sera dopo il servizio, al poligono nei sotterranei del commissariato per fare un po’ di esercizio.
Mentre sparava, pensava.
Pensava a quanto successo, e a quante altre cose avrebbe visto da lì in avanti.
Doveva farci l’abitudine.
Essere un TSD, o anche semplicemente un membro della MAB, voleva dire anche questo, e poco importava che lei fosse solita portare con sé caricatori pieni di pallottole neutralizzanti, o avesse imparato nei suoi studi di stregoneria incantesimi offensivi adatti unicamente a neutralizzare un nemico senza ucciderlo.
«Ormai passi più tempo qui che in ufficio.» sentì dire appena tolte le cuffie, saltando un momento per lo spavento
«Agente Cane.» disse volgendo lo sguardo verso la porta del poligono, solitamente deserto a quell’ora del mattino
«Avanti, sei qui da più di un mese. Che ne diresti di chiamarmi semplicemente Thomas? Tanto più che siamo nella stessa squadra».
Thomas aveva un talento naturale per risollevare il morale, e a Carmy bastò guardare il suo sorriso sbarazzino per ritrovare un po’ di buonumore. L’agente Cane richiamò quindi a sé il bersaglio sul quale Carmy aveva appena svuotato il suo caricatore quotidiano, restandone piacevolmente colpito.
«Però, niente male.» disse notando i sei colpi di sicuro invalidanti «C’è stato un miglioramento. Una volta andava bene se andavi a segno una volta su tredici».
Thomas intuiva perché Carmy fosse così chiusa e riservata da qualche settimana a quella parte, ma non voleva forzarla a confidarsi. In certi casi, e lo sapeva per esperienza, bisognava dare tempo al tempo, e attendere che tutto si metabolizzasse da sé.
Carmy sapeva di aver fallito in un certo senso il suo battesimo del fuoco, e quindi non si era sorpresa nel vedersi negare la possibilità di intervenire nelle altre scene del crimine che si erano succedute nei giorni a seguire.
«Su, avanti.» le disse Thomas dandole un buffetto come ad una bambina colta a commettere una mascalzonata «Se ti fai trovare in ritardo alla tua scrivania dal capitano la poca mira potrebbe diventare l’ultimo dei tuoi problemi.»
«Hai ragione.» rispose lei un po’ più serena.

Per tutti gli anni in cui aveva camminato per Caldesia come uno degli uomini più ricchi e potenti della nazione, Auguste Delaroche aveva da sempre coltivato una grande quantità di hobby e passioni.
Tra queste, però, una spiccava sulle altre, ed era quella per i cavalli.
Amava cavalcare, come qualsiasi nobile che si rispetti, e per potersi dedicare a loro in tutta tranquillità si era fatto costruire in gran segreto una villa con maneggio nelle campagne vicino al villaggio di Trendville, non troppo lontano da Kyrador.
Trenta acri di prati, avvallamenti soffici e anche un piccolo frutteto, dove il barone era solito ritirarsi per lunghi periodi di riposo, lontano dal mondo e dalla frenesia della città.
Nessuno aveva mai saputo della sua esistenza, né chi ne fosse il proprietario, e così non sorprendeva che a distanza di anni la MAB o l’esercito non l’avessero ancora requisita, anche se con l’arresto del suo padrone era con il tempo caduta in rovina.
Ormai non ne restava altro che un vecchio rudere soffocato dalla vegetazione che gli cresceva senza sosta attorno, opaco residuo dei fasti di un tempo, uno spauracchio buono per stimolare storie di fantasmi e strane apparizioni.
La gente del posto in effetti parlava spesso di strane luci e suoni misteriosi che la notte animavano quella tetra dimora abbandonata, ma si trattava di chiacchiere di paese come se ne sentivano tante, e nessuno o quasi ci credeva sul serio.
Ma qualcosa c’era davvero.
Da qualche mese a quella parte, quasi ogni notte, strane presenze erano solite aggirarsi attorno ai cancelli arrugginiti che circondavano la villa, scivolando silenzio attraverso una fessura nelle sbarre nei pressi del cancello principale e dirigendosi cautamente verso il portone aggirando erba alta, serpenti e i ricordini di molti cani randagi che avevano eletto quel posto a proprio rifugio.
Fu così anche quella notte.
Erano quasi le undici quando due uomini, due giovani poco più che ventenni, sopraggiungendo a piedi da una stradina laterale che tagliava la campagna circostante, si portarono nei pressi della recinzione, aggirandola per poi raggiungere a passo spedito il sontuoso portone in legno lavorato.
Le persiane e le imposte erano tutte sprangate, ma guardando bene si poteva scorgere distintamente una debole luce proveniente dall’interno.
Uno dei due bussò leggermente tre volte, e dopo qualche attimo sulla porta si aprì uno spioncino ricavato alla meno peggio da cui fece capolino la faccia sospettosa di un terzo uomo.
«Siete in ritardo.»
«Siamo passati per le campagne.» si giustificò quello che aveva bussato «C’è un sacco di polizia in giro.»
«Entrate».
I due giovani furono fatti entrare, e assieme a quello che aveva loro aperto la porta si incamminarono attraverso i corridoi semibui e sudici della villa fino alla vecchia sala da pranzo, l’unica stanza di tutta la magione che fosse stata quasi del tutto rimessa a nuovo.
Al centro torreggiava l’imponente tavolo ovale, circondato da pregiate sedie di ebano, quadri di classe decoravano le pareti, e un superbo lampadario di cristallo un po’ offuscato dalla polvere pendeva dal soffitto.
La riunione fissata per quella sera era già entrata nel vivo. Alle sedie e ai vari divanetti che correvano lungo i bordi della sala erano accomodati i membri più importanti della nuova Avalon, tutti raccolti attorno al loro capo, il principe stando al suo nome in codice.
Valerian Delaroche sembrava un diamante coperto di fango. Nonostante i lunghi anni dell’esilio e della latitanza ne avessero incrinato il fascino quasi leggendario, nel suo volto risplendeva ancora il fulgore di quel portamento che solo la nobiltà poteva plasmare, elegantemente impreziosito dai lunghi capelli neri raccolti in una coda ed esaltato da due scintillanti occhi blu.
Gli abiti umili e un po’ sporchi che la fuga e la necessità di passare inosservato lo costringevano a indossare non gli rendevano giustizia. Non somigliava neanche lontanamente a suo padre, che di contro era stato punito con fattezze non esattamente ammalianti.
«È inaudito.» disse Percival, il secondo in comando dopo Valerian «Abbiamo lanciato la nostra rivendicazione a reti unificate, e a distanza di tre settimane non una sola emittente lo ha trasmesso.
Anche sulla rete non ve ne è traccia.»
«La MAB e questo governo sono molto bravi a nascondere le notizie.» commentò Bediverre «Lo sappiamo tutti molto bene. E il fatto che l’attentato non sia andato a buon fine li ha aiutati molto a mascherare il nostro operato come un normale incidente.»
«Io vi avevo avvertito.» disse, nella massima noncuranza, un giovane di bell’aspetto con corti capelli paglierini e occhi marroni «La bomba nella macchina del procuratore non è stata una gran mossa. Credevate sul serio che avrebbero permesso ad una notizia simile di diffondersi senza controllo?»
«Sei di poco aiuto, Owain.» lo rimproverò Lancillotto
«In queste cose è sempre necessario procedere a tappe. Se volete la notorietà, se volete che la gente vi veda, dovete fare in modo che la verità sia sotto gli occhi di tutti.»
«Come osa questo novellino arrogante dirci quello che dobbiamo fare?» sbottò Tristano alzandosi in piedi a battendo con forza i pugni sul tavolo «Ti ricordo che tu qui sei l’ultimo arrivato, e se proprio vuoi saperlo qui dentro sono in tanti a dubitare di te.»
«Smettila, sei ridicolo.» disse Bediverre «Ha ragione lui. Anche se fossimo riusciti ad uccidere il procuratore, lo abbiamo fatto in un luogo dove nessuno lo avrebbe potuto vedere.»
«Ne consegue» proseguì tranquillo Owain «Che comunque fosse andata, non avremmo ottenuto comunque quello che cercavamo. Su questo mi pareva di essere stato chiaro all’ultima riunione.
Ora sanno che siamo qui, che siamo determinati, e che non abbiamo intenzione di andare per il sottile. Che poi tradotto sarebbe, ci staranno col fiato sul collo.» quindi fulminò spavaldo Tristano, che era stato l’ideatore di quel piano «Ne converrai dunque che la tua non è stata una gran bella pensata».
L’interessato digrignò i denti per la rabbia e tornò a sedersi.
«Stai pensando di colpire alla luce del sole?»
«Noi vogliamo che la gente di questo Paese apra gli occhi. Ma anche se molti considerano giuste le nostre rivendicazioni, e possiamo vantare un buon numero di sostenitori, noi per i più non siamo nulla più che comuni terroristi. E nessuno darà mai ascolto alle rivendicazioni di terroristi, per quanto giuste e sensate possano essere.»
«Io credo abbia ragione.» disse Lancillotto «Possiamo avere simpatizzanti nell’esercito, nella polizia, o addirittura nella stessa MAB. Ma senza il sostegno dell’opinione pubblica, noi non siamo niente.»
«E il sostegno dell’opinione pubblica non si ottiene certo scrivendo attentato a caratteri cubitali su ogni nostra azione.» incalzò Owain alzandosi e avvicinandosi al tavolo
«Allora che cosa proporresti?» domandò sprezzante Tristano.
Owain rispose con un sorriso compiaciuto, quindi mise una mano nella tasca interna del suo giaccone, prendendone due oggetti che poggiò sulla tavola.
«Questi dovranno essere i nostri soli strumenti d’azione».
Molti restarono perplessi, qualcuno si passò una mano sulla fronte, Tristano invece quasi scoppiò a ridere.
«Un cacciavite e una provetta?» disse con spaventosa ironia «Non sarà che quella botta è stata più forte del previsto?».
L’unico che capì al volo che cosa uno dei suoi consiglieri preferiti avesse in mente fu proprio Valerian, che fissò negli occhi Owain come a voler essere certo di aver capito bene.
«Ne sei sicuro?»
           «Fidatevi di me. Data la società in cui viviamo, un incidente di troppo può avere più effetto di qualunque attentato terroristico».

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